Così come il percorso, tutto sembrava in via di semplificazione, di miglioramento. Il terrore che un giorno ci accolse, quando nella solita stanza non trovammo più Celeste, si trasformò nella nostra gioia più grande. Celeste era stata trasferita tre porte più in fondo, nella terapia subintensiva: significava che le cose stavano finalmente andando nel verso giusto. È lì che stazionavano i neonati per alcuni giorni prima di essere dimessi.
«Se lavate bene le mani, potete toccarla.»
Io da una parte ed Elena dall'altra dell'incubatrice, con le braccia attraverso gli oblò, con la sensazione di trapassare una sorta di quarta dimensione, carezzammo per la prima volta la testa morbida di Celeste, i suoi sottilissimi capelli, le sue minuscole braccia, le mani, i piedi. Celeste più volte afferrò l'indice della mia mano, stringeva forte, quasi volesse rassicurarmi che aveva la forza necessaria per aggrapparsi alla vita.
Pochi giorni dopo Elena poteva tenere Celeste in braccio per alcune ore, rannicchiata tra i suoi seni. Aiutavo Elena a cambiare il pannolino, a vestire Celeste con le tute che, data la misura estremamente ridotta, avevamo trovato con molta fatica e solo dopo tante ricerche in vari centri commerciali.
Avevo anch'io qualche momento per tenere Celeste tra le braccia, per sfiorarle la fronte con le mie labbra, per lasciarmi intorpidire la mente dall'odore così delicato dei suoi capelli, della sua pelle, per sussurrarle frasi innamorate all'orecchio. È in quel periodo che scattammo molte fotografie, quelle in cui Celeste appare una bambina come tutte le altre.
Durante la lunga permanenza nel reparto avevamo conosciuto gli altri genitori e i loro figli. Quasi tutti ignoravamo il regolamento che obbligava ad avvicinarsi esclusivamente all'incubatrice del proprio bambino.




