Tutti, seppure con molta discrezione, finivamo per scrutare le altre incubatrici, constatando i miglioramenti, i progressi o commentando i comportamenti a volte divertenti dei piccoli pazienti. C'erano giorni in cui si rideva, altri in cui a qualcuno dovevi dare una pacca di incoraggiamento sulla spalla. Sapevamo che il destino si aggirava sempre in quel reparto con una pistola e un solo proiettile, giocava tutti i giorni alla roulette russa, puntava ogni singolo neonato prematuro e premeva il grilletto senza alcuna esitazione. Ogni giorno. Ma in quasi due mesi di permanenza io ed Elena non avevamo mai assistito ad epiloghi tragici; anzi, durante il percorso da casa all'ospedale facevamo spesso il riepilogo dei bambini che erano stati dimessi, che ce l'avevano fatta. Così ci convincevamo che da quelle parti si aggirasse un destino buono e disarmato.
La cameretta di Celeste era un piccolo cantiere, io ed Elena ci trascorrevamo le poche ore libere a disposizione. Avevo tinteggiato le pareti di rosa antico, avevo applicato su tutto il perimetro una fascia decorativa con orsacchiotti che ballano e si prendono per mano. Elena aveva cucito le tende per la finestra, aveva ricamato nel centro gli stessi orsacchiotti della carta da parati; ne andava molto fiera.
Eravamo proprio nella cameretta di Celeste, prendevamo le misure per posizionare il letto. Il mio cellulare squillò. Elena mi aveva avvisato più di una volta: «Se dovessero telefonare dall'ospedale non preoccuparti. Sarà sicuramente per avvisarci di preparare tutte le cose di Celeste, per portarla finalmente a casa.»
Le parole del medico allora fecero l'effetto di un acido ingerito per errore al posto dell'acqua. Parlò per quasi un minuto, a tratti parlava da medico, a tratti da padre, ma compresi solo il concetto fondamentale: Celeste aveva avuto un grave problema cardiaco. Rimasi muto e nella mia testa solo alcune parole echeggiavano: "cianotica", "non respira", "intubata".




