Nel film di Siodmak, per esempio, O’Brien viene a conoscenza di episodi che riguardano lo svedese, morto prematuramente, attraverso una serie di flashback con cui lentamente egli si immedesima nel suo antagonista. Comunque, alla fine, se O’Brien esce vivo da tutta la storia, è solo grazie al suo cinismo, alla mancanza di fiducia nell’umanità, che sono evidenti proiezioni della realtà del proprio tempo (39).
Indagando nel passato, O’Brien lascia dietro di sé una scia di morte, come avviene spesso nei film noir. Alla fine però realizza il suo obiettivo, risolvendo il mistero dell’oscurità, il mistero che lo spettatore, nel suo mondo oscuro, quello che in quest’epoca l’accoglieva all’uscita dei teatri e dai cinema, non poteva comprendere (40).
Circa dieci anni dopo, nel remake Contratto per uccidere, non c’è più alcuna traccia del noir. La causa va ricercata principalmente negli eventi storici che sferzano il clima della società americana, primo tra tutti l’assassinio di Kennedy nel 1964 e i cristalli della guerra fredda che si insinuano negli ingranaggi di molte storie narrate. Il terrore di una società come quella descritta da George Orwell in 1984 si annida nel petto degli americani.
Il film di Siegel, come altre pellicole realizzate da allora fino ai nostri giorni, si pone il problema di smascherare alcuni atteggiamenti – ad esempio quelli fondati sugli affari e sulla sicurezza economica – per mettere a nudo la futilità della vita moderna, priva, ma anche assolutamente bisognosa, di una base morale ed emotiva (41).
Dunque il film di Siegel, che pure in molti punti sembra ricalcare quello precedente, ostenta un animo profondamente diverso. Le differenze sostanziali non sono soltanto nella luminosità, nel colore, dunque nella qualità fotografica, ma soprattutto nella caratterizzazione del protagonista:
In Contratto per uccidere Lee Marvin è l’uomo incaricato di fare luce sulla morte della vittima.
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