La novità non consiste, come si è superficialmente osservato, nell’origine vegetale degli invasori (la trovata dei grossi baccelli in funzione di bozzoli e di incubatrici ha un valore puramente meccanico e di semplice avvio); bensì nel fatto che, a sviluppo avvenuto, la distinzione fra essi e i terrigeni è esclusivamente di carattere psicologico-morale (67).
Questo a conforto di quanto si diceva inizialmente, sul coinvolgimento psicologico del genere fantascientifico. Ma l’altro elemento che trapela dal film, e che viene inquadrato quasi unanimemente dalla critica, è il legame della trama con la realtà socio-politica americana di fine anni Cinquanta.
Queste, e altre, le implicazioni che vengono scorte in un unico film di fantascienza.
Fantascienza simbolica, quindi; il film è soltanto uno squillo d’allarme, il rilancio di una crociata ideologica contro le quinte colonne e le diaboliche insidie di un totalitarismo alla Orwell. Ma la polemica è a doppio taglio: troppo facile osservare che gli antidoti verso i quali ci indirizza il film si identificano in ricette pericolosamente omeopatiche, quali l’incrudimento di una psicosi isterica di stampo maccartistico (68).
Le stesse considerazioni si riaffacciano più di vent’anni dopo, proprio quando i critici confrontano il film di Siegel con Terrore dallo spazio profondo (Invasion of the Body Snatchers), remake diretto nel 1978 da Phil Kaufman.
Il film di Kaufman, più terrificante, con un finale senz’altro più convincente ed inquietante, traspone la vicenda in un contesto diverso dal film di Siegel accentuando soprattutto l’aspetto meno particolare e contingente per coinvolgere quelle che sono le paure ancestrali dell’uomo.
L’invasione degli «alieni» non è cruenta, non c’è uno scontro fra due mondi, non c’è una guerra aperta: è un’invasione subdola e strisciante, quanto inesorabile e progressiva. (69)
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