Nel 1966, Gordon Douglas realizza un remake di Ombre rosse, noto in Italia come I nove di Dryfork City, considerato unanimemente dalla critica un fallimento totale. La causa di tale fallimento è attribuita per lo più alla scelta del cast: Ann Margret, Van Heflin e Bing Crosby al posto di Claire Trevor, John Wayne e John Carradine. A nulla servono il formato in scope e i colori. Ma superando i soliti confronti estetici, tentiamo di comprendere i motivi dell’infelice esito del rifacimento di Douglas.
Tra il modello originale e il remake c’è una distanza di ventisette anni, il che non è un elemento trascurabile. Indubbiamente Ombre rosse e I nove di Dryfork City rappresentano i poli estremi entro i quali il genere – nella sua forma classica – compie la propria evoluzione, o dissoluzione.
Scrive André Bazin:
Poco prima della guerra il western era arrivato a un grado indubbio di perfezione. L’anno 1940 segna un punto oltre il quale doveva prodursi fatalmente una nuova evoluzione, che i quattro anni della guerra hanno semplicemente ritardato, poi inflesso, senza tuttavia determinarla. Stagecoach (1939) è l’esempio ideale di questa maturità di uno stile giunto al classicismo. John Ford era arrivato all’equilibrio perfetto tra i miti sociali, l’evocazione storica, la verità psicologica e la tematica tradizionale della messa in scena del western. Nessuno di questi elementi fondamentali prendeva il sopravvento sull’altro. Ombre rosse dà l’idea di una ruota così perfetta da poter restare in equilibrio sul proprio asse in qualsiasi posizione la si metta (12).
L’evoluzione di cui parla Bazin effettivamente c’è stata, e forse l’errore del remake di Gordon Douglas sta proprio nel non averne tenuto conto. I nove di Dryfork City è un film di genere che sembra ignorare l’attualità del genere stesso a cui appartiene, e che preferisce riallacciarsi ad un nostalgico e anacronistico modello ormai tramontato.




