Ho invitato Virginia in quel ristorante dove si possono gustare solo cibi immaginari, dove la questione dell'immaginazione è presa sul serio, a cominciare dagli chef che nella cucina a vista – una stanza completamente vuota in realtà – mimano ogni azione necessaria alla preparazione di un piatto reale e sanno fantasticare fornelli accesi, soffritti, pentole con acqua in ebollizione, profumi e vapori, riuscendo perfino a tagliuzzare, sminuzzare, soffriggere, amalgamare, assaggiare, scegliere con cura le materie prime immaginarie. Lo stesso vale per i camerieri: rapidi, gentili, capaci di servire porzioni di immaginazione come fossero davvero piatti di rara prelibatezza. Insomma: "Il palato immaginario" è un ristorante dove nulla è lasciato al caso.
Virginia ha consegnato il suo immaginario cappotto di lusso al guardaroba, ha anche detto: "Mi raccomando!» e il cameriere lo ha maneggiato con estrema cura mimando l'azione di appenderlo alla stampella carezzandone l'intera lunghezza. Un altro cameriere ci ha accolti con la massima gentilezza, ci ha accompagnati al tavolo che avevo prenotato, quello vicino alla parete bianca dove c'è un quadro con la scritta: "Immagina che questa parete sia una vetrata affacciata sul luogo più bello del mondo". Ci siamo accomodati. Virginia sulla parete ci vedeva una spiaggia tropicale, io una valle dolomitica. Siamo stati infatti un po' a parlare dei nostri diversi panorami, tutti straordinari a loro modo. Peccato per quelle nuvole scure che a un certo punto si sono addensate sulla cima più alta delle mie montagne. Non riuscivo più a rimuoverle dalla fantasia.
«Non starci a pensare!» ha detto Virginia e così abbiamo parlato di altro, sebbene sul mio panorama avesse già cominciato a piovere fitto. Abbiamo ordinato. Virginia è diventata improvvisamente bionda, ha detto: «Così ti piaccio lo stesso?»
«Ma certo!» ho detto. Anche lo smalto delle sue unghie ha cambiato colore, è diventato rosso vivo.