Il mio gioco preferito era lanciare la palla al di là del muro che separava il giardino di casa dal cimitero, nello spazio tra i cipressi, e aspettare che un morto me la lanciasse indietro. Dopo qualche secondo, il pallone tornava nel mio giardino. Mi ero fatto l’idea che i morti fossero gentili e pazienti nonostante i continui rimproveri di mia madre: «Non scocciare Gennaro con quel pallone!»
Come facesse mia madre a sapere che il morto si chiamava Gennaro non mi era chiaro. Non facevo mai troppe domande, né capivo perché con tanti morti a disposizione fosse sempre e solo Gennaro a restituirmi il pallone. La verità venne a galla quando sul tema “Il mio migliore amico” scrissi che il mio migliore amico era Gennaro, morto in guerra (questo particolare lo avevo in effetti inventato per allungare il brodo), un uomo paziente che tutti i giorni mi restituiva la palla che lanciavo al di là del muro. La maestra convocò mia madre per avere delucidazioni sul mio macabro passatempo e tornando a casa mi rimproverò per essere «così tonto». Disse proprio: «Non capisco come fai a essere così tonto! Mi sorprendo di te. Sai già che Babbo Natale non esiste e credi che un morto possa lanciarti un pallone?»
«Come sarebbe a dire che Babbo Natale non esiste?»
Mamma non parlò più fino a casa, forse perché tra sé e sé ragionava su come gestire un figlio tonto. D’altra parte pure io non avevo gran voglia di parlare. Quel pomeriggio lo ricordo ancora come fosse ieri, restai seduto con le ginocchia tra le braccia e la schiena poggiata al muro del cimitero fino a tarda sera. Ero davvero tonto in effetti: se i morti avessero potuto davvero lanciare una palla al di là del muro, allora avrebbero potuto fare anche tante altre cose, come tornare a casa, e mio padre non era mai tornato a casa. Il pallone, quel pomeriggio, restò immobile al centro del giardino. Senza un perché, come la Terra nel vecchio universo tolemaico: ferma, al centro di un non senso sterminato.




