In un minuto avevo perso Babbo Natale e Gennaro. O meglio, Gennaro non lo avevo perso, anzi, da quanto mi aveva raccontato mamma era vivo e vegeto, era il custode del cimitero. Ascoltai per la prima volta la sua voce qualche giorno dopo, quando presi una scala e salii sul muro per capire cosa ci fosse dall’altra parte: «Ehi, ragazzo! Scendi da lì, è pericoloso!»
«Sei tu Gennaro?» domandai.
«Sì, sono Gennaro. Ma scendi da lì che è pericoloso!»
Gennaro era un uomo piccolo, sui quarant’anni: «Su scendi! Cosa fai lì?» incalzò.
«Grazie per il pallone.»
«Ah, figurati! Da qualche giorno non lo lanci più, come mai?»
«Credevo tu fossi morto e la cosa mi divertiva di più.»
Gennaro ebbe un sussulto e compresi anni dopo che il suo gesto un po’ sconcio si definiva apotropaico, disse: «Morto? Ma come ti viene in mente che un morto possa lanciare un pallone?»
«Mamma dice che sono un po’ tonto» spiegai.
«Ma cosa dice tua madre? Non starla a sentire! Mi sembri un ragazzino sveglio invece.»
È così che Gennaro diventò davvero il mio migliore amico. Salivo quasi tutti i pomeriggi sul muretto e parlavo con lui di tante cose, a volte gli ripetevo la lezione di storia o mi facevo aiutare a risolvere i problemi di matematica, oppure ci chiedevamo quale fosse il nome degli uccelli che sbucavano all’improvviso dai rami dei cipressi. Non mancavano poi i lanci della palla al di là del muro, che però si facevano via via più rari. Pomeriggi di sole e chiacchiere che credevo eterni, finché Gennaro non mi annunciò che sarebbe andato a lavorare come magazziniere in un grande centro commerciale: «Guadagnerò molto di più, ne ho bisogno per la famiglia» mi spiegò, «e poi potrai venirmi a trovare qualche volta.»
«Davvero posso venirti a trovare?»
«Ma certo! Quando vorrai.»
Non lo avrei mai più rivisto. Abituato alla solitudine della casa accanto al cimitero, diventai un ragazzo solitario.
