Non parlavo con nessuno, me ne stavo nel giardino a leggere, oppure sdraiato sul divano a guardare la tivù. Ora che non lanciavo più la palla al di là del muro, i rimproveri di mia madre erano cambiati: «Alla tua età dovresti uscire con gli amici, trovarti una ragazza e non poltrire tutto il giorno in questa casa!»
Terminate le scuole, iniziai a lavorare in fabbrica. Affittai un appartamento in città. Vivere diventava per me un gesto sempre più meccanico, svuotato di senso, di entusiasmo, di prospettive. Gli anni passavano in fretta e i miei unici appuntamenti erano con psicologi o psichiatri che speravo potessero farmi ritrovare quella remota spensieratezza di quando lanciavo una palla al di là del muro aspettando che qualcuno la lanciasse indietro. Non servivano a nulla i lunghi discorsi della psicoterapia, non servivano a nulla i farmaci. Mi perdevo nei giorni.
Dopo la morte di mia madre ereditai la mia casa di infanzia, fui costretto a tornare lì per sbrigare alcune pratiche necessarie alla vendita. Ero nel giardino, la sveglia mi ricordò che dovevo assumere la pillola antidepressiva. Ero tornato proprio nel luogo dove il non senso della vita, un pomeriggio di tanti anni prima, si era instillato nel mio mondo emotivo non lasciando scampo. Chissà che fine aveva fatto Gennaro, magari era vecchio ma ancora vivo, oppure adesso era morto davvero anche lui e seppellito in chissà quale cimitero. Mi avrebbe fatto bene parlare con lui. Poggiai la scala al muro, mi arrampicai, non era facile come quando ero un bambino. Tante cose nel cimitero erano proprio come le ricordavo: anche la panchina sotto il cipresso dove Gennaro sedeva quando parlavamo. Un capogiro mi convinse a tornare giù. Forse il destino mi aveva dato un appuntamento, questa idea diventò un brivido lungo la spina dorsale.
