Sembrava l'inizio di una grande carriera, invece, sarebbero rimaste solo alcune fotografie sulla parete della sua camera e quei filmati dai colori slavati, le luci piatte, l'audio ovattato. I ragazzini che tanto avevano amato la coppia della pubblicità dei mobili erano cresciuti in fretta, dimenticando sia Felipe sia il pupazzo Zeb sia Muebles Don Paco, che chiuse i battenti pochi anni dopo. Peraltro Zeb è un pupazzo di gran lunga più brutto di me, e lo dico nonostante la mia somiglianza con non so quale animale, forse un incrocio malriuscito tra un castoro e un cane randagio, ma di sicuro non ho quel suo sorriso ipocrita e indubbiamente gli occhi miei sono più dolci.
«Ho una sorpresa per te» disse la madre di Felipe una sera. Mi teneva per il collo, la sua mano calda sulla mia nuca imbottita. Sul divano Felipe era piegato in avanti, come avesse dolori alla schiena. «L’ho fatto per te, è un pupazzo da ventriloquo.»
Felipe mi aveva afferrato, i nostri sguardi si incrociavano per la prima volta, aveva detto: «Ma questa era la mia camicia!»
«Sì, gli sta bene, non trovi?»
Felipe non aveva risposto, mi aveva scaraventato sulla poltrona dove sarei rimasto per anni, sua madre aveva abbassato la testa e aveva detto: «Dovresti ricominciare.»
«Ricominciare cosa? A illudermi?»
«A vivere, forse» aveva risposto prima di ritirarsi in cucina. Felipe, come al solito, si era messo a dormire sul divano senza nemmeno cenare. L'avrebbe fatto a tarda notte, quando sua madre già dormiva, come volesse allenarsi alla sua imminente assenza. Assistevo così in silenzio al suo lento declino. Felipe rientrava tardi a casa, sdraiato sul divano si lasciava anestetizzare dalla luce di un televisore muto, più che dalla fatica era stremato da un lavoro che non amava. A volte si addormentava sul divano, la sveglia lo richiamava a un nuovo giorno, lui ricominciava senza nemmeno aver cambiato gli abiti dalla sera prima.