Un medico, che fino a quel momento non avevamo mai visto, venne a domandarci se Celeste fosse stata già battezzata o, nel caso, se avessimo voluto battezzarla.
«Oh mioddio! È morta!» gridò Elena. «È morta! Figlia mia! Figlia mia perché? Perché?»
«No signora», disse il medico afferrandole con fermezza le spalle, «è una domanda che facciamo sempre in questi casi... La situazione è... gravissima, non posso nasconderlo, ma il cuore di vostra figlia ancora batte.»
No, Celeste non l'avevamo ancora battezzata. Tuttavia, per quanto lontani da ogni religione, avremmo voluto comunque farla battezzare, un po' per assecondare il desiderio dei suoi nonni, credenti e ancora legati alle vecchie tradizioni, un po' perché sia io sia Elena non avevamo mai capito molto della nostra spiritualità e preferivamo lasciare una porta aperta.
Un giovane prete dell'Europa dell'Est, magro e biondo, mischiava un italiano stentato a un gran fiatone, ci raggiunse. Ci porse dei fogli con le preghiere da leggere. Si avvicinò a Celeste. La mano con cui teneva il piattino di metallo dell'acqua benedetta gli tremava vistosamente, manifestando la sua commozione per quella creatura prossima alla morte ed allo stesso tempo massima espressione di una nuova vita.
«Che nome volete dare alla vostra bambina?»
Celeste.
Celeste.
Il giovane prete si allontanò, studiai il viso dei medici e degli infermieri per carpire in anticipo ogni loro eventuale sentenza. La piccola mano di Celeste, che stringevo con la disperata e assurda convinzione di non lasciarla scivolare nel crepaccio della morte, era immobile e, forse a causa della mia suggestione, anche già fredda. Uno sporadico punto luminoso rimbalzava sul monitor inseguendo gli ultimi spasmi di Celeste. Uno dei medici serrò le labbra e scosse la testa, fece un cenno agli infermieri.




