Non avevamo più il tempo.
Elena si era rifugiata in fondo al corridoio, con la rassegnazione umile di un cane ferito. L'abbracciai forte e la pregai di rientrare. Dovevamo carezzare e baciare Celeste per l'ultima volta. Lei si divincolò ripetutamente, ma poi si lasciò trascinare dal mio abbraccio. Tornammo dentro la sala delle incubatrici. Celeste era finalmente libera dai tubi e dalle flebo che avevano tentato, forse con troppa prepotenza, di legarla alla vita. L'infermiera adagiò il corpo di Celeste tra le braccia di Elena e lei la cullò, le sussurrò nell'orecchio una ninna nanna atavica, fatta di sussurri, lamenti e silenzi; tutte le madri la conoscono senza saperlo fino al giorno in cui il cuore gli cade al suolo spaccandosi come una dura melagrana che perde nella terra i propri semi insanguinati.
Uno dei medici si avvicinò a me parlando a bassa voce: «Mi rendo conto che il momento non è adatto, ma vi consiglierei di autorizzarci ad eseguire l'autopsia. Sarebbe importante.»
«Ne vorrei parlare con mia moglie» risposi. «Avrei bisogno di pensarci.»
«Capisco, ci pensi. Però secondo me è importante.»
Non riuscivo a sopportare l'idea che un bisturi si intromettesse nei nostri sentimenti.
Telefonai a mia madre, la informai e non ebbe nemmeno più la voce per confermarmi di aver compreso bene. Si incaricò di avvisare tutti i parenti. Era ormai notte, forse in tutto il mondo, forse per sempre. Trascinai Elena, che era caduta nel mutismo più totale e che a stento riusciva a camminare, fino alla macchina. Non so neppure come riuscii a guidare fino a casa.
La notizia si era diffusa rapidamente tra i parenti, li trovammo tutti a casa ad aspettarci. Ci fecero compagnia fino a tardi. Il lutto, soprattutto durante i primi giorni, ci abbandonò in alto mare e per galleggiare dovevamo necessariamente trovare un appoggio, perché non avevamo più forza nelle braccia e nelle gambe, ed era forte la tentazione di lasciarci andare a fondo.




