Il funerale di Celeste rappresentava l'ultima occasione a noi concessa di occuparci di lei, come se non fosse ancora davvero morta; allora usavamo, tutta insieme, quella riserva di amore che avevamo da parte e che altrimenti avremmo dilazionato per scegliere le prime scarpe, i primi giocattoli, le caramelle e lo zucchero filato alle bancarelle delle feste, il vestito di carnevale, lo zaino per la scuola e tutto quello di cui avesse avuto bisogno. Poi non ci avrebbe chiesto più nulla, per il resto della nostra vita. Più niente. «Non mi piace questa lapide,» disse Elena seccata all'anziano marmista, «sembra la lapide buona per un vecchio di novant'anni!»
Il marmista mi guardò in modo interrogativo, senza dire nulla.
«Non si preoccupi,» assicurai «va bene così.»
Condussi Elena verso l'auto, sapendo che avrei dovuto sorbirmi qualche ora di discussioni. Chiedevamo l'impossibile: una lapide che non evocasse la morte, un marmo che non fosse così pallido e freddo, una morte che non facesse così male.
Nonostante l'aiuto economico di genitori e parenti, spendemmo tutti i nostri risparmi. Il pensiero ossessivo e lacerante di come affrontare le spese si annidava nel vuoto mortale che l'assenza di Celeste aveva scavato nelle ore di interminabili giornate. Una di quelle sere trovai Elena in lacrime, aveva una lettera in mano. Era la parcella del medico legale il cui importo superava abbondantemente almeno quattro dei miei incassi mensili messi insieme. A breve sarebbe arrivata anche la parcella dell'avvocato, un legale sconosciuto scelto in fretta e a caso che si era impegnato ben poco a far valere le nostre ragioni. A mio fratello, avvocato civilista, avevo chiesto solo alcuni consigli, ma, a causa di stupidi attriti che avevo stabilito con lui sin dall'adolescenza, non avevo mai desiderato coinvolgerlo più di tanto.




