Fui quindi costretto a pressare più del solito i miei debitori, che però trovavano sempre il modo di farsi negare o di sparire dai luoghi dove solitamente erano reperibili.
Le gravi difficoltà economiche infittirono le discussioni tra me ed Elena. Lei non mancava di ricordarmi che il mio non era un lavoro serio, che non guadagnavo abbastanza e che per le ore che stavo fuori casa avrei dovuto incassare almeno il doppio. Non potevo darle torto: io per primo maledicevo il mio mestiere e soprattutto molti dei miei clienti, ma non avevo alternative. L'era glaciale privata, iniziata con il latte congelato, non era affatto terminata e aveva anzi travolto la nostra esistenza. Scivolando sul ghiaccio che pavimentava il nostro rapporto e adoperando l'imprudenza di un giovane pattinatore, avevo ignorato l'incrinatura che poi avrebbe aperto un crepaccio sotto i miei piedi, rendendo incolmabile la distanza tra me ed Elena. Non ebbi la giusta lucidità per considerare eventuali tentativi di riavvicinamento, o per coltivare i presupposti di una pacificazione. Avrei potuto organizzare un viaggio (certo, difficile vista la situazione economica); dire qualcosa che la facesse sentire ancora amata; o semplicemente avrei potuto portarle un mazzo di fiori con un biglietto sincero. Invece accettai il susseguirsi degli eventi senza tentare di arginare nessuno degli errori che commettevo ogni giorno. Il nostro amore si era fatto arido e sassoso, un terreno inadatto alle radici di un figlio e spesso, in modo del tutto irrazionale, finivo per credere che la morte di Celeste fosse non la causa della fine del nostro rapporto, ma addirittura la diretta conseguenza. Come se l'epilogo di un amore avesse dei risvolti criminali, occulti e soprannaturali. Di fatto Celeste dopo la morte si era come sdoppiata e noi, estranei l'uno all'altra, piangevamo due figlie distinte; eravamo parenti delle diverse vittime di uno stesso tragico incidente.




