Sapevo che la nostra imminente separazione avrebbe lacerato i nostri ricordi, come lo strappo diagonale di una foto di cui avremmo conservato solo una parte, inutile senza l'altra. I nostri ricordi sarebbero rimasti per sempre pensati e taciuti, privi di ogni possibilità di trasformarsi in un suono, in una parola viva, perché nessuno oltre a noi avrebbe mai più voluto ascoltare il nome di Celeste.
Due settimane dopo il funerale di Celeste, in occasione del mio più inutile compleanno, vennero a farci visita Marcello e sua moglie Rita, nostri cari amici, seguiti dai figli Federico e Ludovica, che era nata appena un mese prima di Celeste. Ero impreparato alla loro visita, non riuscivo a credere che qualcuno avesse davvero portato una carrozzina in casa nostra e addirittura una torta per festeggiare il mio compleanno. Da pochi giorni avevo nascosto in cantina tutto ciò che era destinato a Celeste e che invece lei non aveva mai potuto usare: la culla, la carrozzina, le coperte, i ciucci, i biberon, i suoi piccoli abiti. Marcello e Rita, con un'allegria che a me appariva surreale e spiazzante, ignorando che quello era il peggiore compleanno della mia vita, piazzarono la torta nel centro del tavolo, incendiarono le candeline e, battendo le mani e cantando “tanti auguri a te”, mi invitarono a soffiare. Tempo dopo avrei compreso che la nostra genitorialità non era percepita correttamente da chi ci circondava, perché, a parte me ed Elena, nessuno aveva mai visto Celeste. Quando Celeste morì molti non riuscirono a percepire particolari differenze nella nostra quotidianità. In pubblico apparivamo sempre e solo noi due: Celeste non era mai presente. Eravamo genitori di un'entità astratta, poco cambiava se andavamo a trovare nostra figlia in ospedale o al cimitero, perché in fondo per loro Celeste non era mai esistita.
Presi un paio di bibite dal frigo, un coltello per sezionare la torta.




